domenica 13 maggio 2012

MINESTRA DI BOBICI CON FILETTI DI SGOMBRO



Premetto subito una cosa. Non sono istriana. E nemmeno triestina. Né di nascita né di origine. Però vivo a Trieste da una vita e ormai la considero un po’ la mia città d’adozione.

Non mi sono mai troppo interrogata sul mio attaccamento a questa strana città, che per la verità ho sempre guardato con occhi distaccati, come fossi una turista.

Mi sono quindi stupita molto della mia reazione quando, leggendo del contest di  AmbraClaudia sull’Istria, ho sentito che si stava toccando un argomento che mi riguardava, quasi si stesse parlando di una cosa mia.

Al punto di sentire di dovere assolutamente intervenire per dire la mia su argomenti come i bruscandoli, le fritole e di puntualizzare, in modo fin troppo puntiglioso, lo riconosco, che il vino Terrano è un vino del carso triestino e non un vino istriano-croato.

Chi vive da queste parti sa bene cosa significhi parlare dell’Istria, a quali pericoli si può andare incontro e quali e quante sensibilità si possano urtare.

E allora voglio descriverla con le parole di una giornalista e scrittrice istriana, Anna Maria Mori, nata a Pola quando era ancora una città italiana e che come tanti altri ha dovuto abbandonare la sua terra.

Dal libro “Nata in Istria” di Anna Maria Mori
«Per una frugalità avveduta e dignitosa, il mio uomo di Materada la domenica mangia all’austriaca, sui bordi del campo all’italiana, nelle sere d’inverno alla slovena».
È un modo come un altro, più diretto ed efficace di molti altri, per raccontare la frontiera, dramma personale e letterario di Fulvio Tomizza. E dramma dell’Istria.
Tanto è complessa, la frontiera, quanto, e proprio per questo, è difficile raccontarla, soprattutto al nostro mondo di oggi che vive, anche dolorosamente, la complessità, ma parla il linguaggio consolatorio della semplificazione. Ed è difficile raccontarla perché, volendo appunto semplificare, succede che dentro la frontiera tutti hanno ragione e tutti hanno torto, tutti sono, insieme, buoni e cattivi, vittime e carnefici […]
Meglio allora la semplice e bella sintesi “alimentare” di Fulvio Tomizza, questa sì accessibile a tutti. Perché l’Istria dalle mille storie, mille vite, mille lingue e culture, l’Istria delle fate buone e delle vipere dal corno, tra le più pericolose che esistano, magari la si può riassumere in maniera più dolce e tranquillizzante proprio attraverso i suoi mille modi di mangiare: in Istria ti mangi in primo luogo l’Istria stessa, il suo mare, la sua campagna e i suoi monti, la sua millenaria povertà, e poi mangi anche Venezia, l’Austria-Ungheria, la Romania, i turchi ottomani, la Serbia, la Croazia, il Montenegro, la Bosnia e l’Albania.
Forse è più facile masticarli e digerirli, la multietnicità la multiculturalità e il plurilinguismo, che non tentare di spiegarli a parole, utili a convincere solo quelli che già ne sono convinti per destino di nascita e di vita.
Ammesso e non concesso che almeno nella cucina possa davvero realizzarsi una sintesi anche armoniosa, perché per quanto mi riguarda, ricordo la sorpresa impaurita in un ristorante a Pisino, subito dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la formazione della Repubblica di Croazia: avevo chiesto i soliti čevapčiči, ignorando l’origine serba di quel piatto, e il cameriere in vena di malriposti patriottismi e nazionalismi, quasi mi buttava fuori dal ristorante: “Qui siamo in Croazia, qui non si fanno čevapčiči”.
[…]
Da Trieste si sale fino a Muggia, a destra c’è Santa Barbara, un casolare, un piazzale, un orto-giardino con l’albero di fichi neri, due ulivi, e di fronte, la tocchi quasi con la mano, è già Slovenia: «Ma qui siamo in Istria, qui comincia l’Istria…».
La storia che ti viene affidata è quella di tanti: sono partiti per andare a Trieste, hanno aperto lì un piccolo ristorante, poi la nostalgia li ha riportati più o meno da dove erano partiti: a due passi dalla natia Umago «Qui siamo a casa» dicono. E raccontano alternandosi, intorno a un tavolo, con l’inevitabile bicchiere di vino bianco davanti a ognuno, il padre, la madre, la sorella della madre, una delle figlie, un’intera famiglia.
«La mamma sapeva l’italiano, lo sloveno, il croato e l’ungherese, così quando si è messa a fare cucina nel ristorante piccolissimo che abbiamo aperto a Trieste dopo essere venuti via da Umago, ha fatto una cucina di contaminazioni tra tutte queste culture. Faceva gli gnocchi di pane o quelli di susine, austriaci; il gulash alla triestina con la carne di manzo e senza patate né paprika, diverso quindi da quello ungherese; della cucina ungherese aveva invece adottato le sarme, involtini di verza con carne mista tritata e riso serviti con un contorno di crauti; della cucina istriana faceva risi e bisi, riso e piselli; della cucina fiumana, i sardoni alla marinada, sardoni aperti, spinati, messi a cuocere a strati con le patate tagliate a fettine sottili e foglie d’alloro; della cucina quarnerina che in realtà riproponeva un’antica ricetta veneziana, aveva adottato gli scampi alla busara; faceva l’austriaco Koch di riso, riso cotto nel latte, due uova, limone grattato, zucchero, se c’erano anche i pinoli, e tutto a cuocere nel forno. Per le grandi feste faceva gli istriani strucoli cotti con la pasta lievitata delle pinze pasquali stesa ad accogliere un ripieno di noci macinate cotte in un litro di latte, un bicchierino di grappa, due cucchiai di miele istriano, pinoli, uva passa. Ed era maestra nel baccalà alla veneziana, battuto a mano nell’olio fino a farlo diventare una crema».[…]
Tanto è importante la cucina, soprattutto in una terra storicamente povera come l’Istria, che lo stemma della città di Pola, una croce gialla in campo verde, ti spiegano che sta a significare il tradizionale abbinamento istriano di polenta e radicchio. E oggi a Pola il grande e bellissimo mercato coperto austroungarico, con in cancelli e le terrazze in ferro battuto, è diviso in due: da una parte il mercato del pesce, e dall’altra quello della carne. Gli italiani d’Istria li trovi tutti nel mercato del pesce, i croati in quello della carne che ti accoglie fin dall’ingresso con un forte profumo di carni e salsicce affumicate. Sui banchi di verdura all’esterno si vendono a mucchi le bacche di ginepro: si usano per metterle nell’acqua dentro grandi botti di legno, si tengono a bagno una ventina di giorni, e poi si beve l’acqua che nel frattempo è diventata frizzante.
Nel grande bar coperto sulla piazza del mercato si celebra il rito del caffè, anche quello ereditato da Belgrado: tutti seduti, anche per ore, a prendere il caffè, anche quello contaminato dalla cultura musulmana, e quindi servito con la panna dolce.
Parenzo oggi è Poreč: un promontorio che si stende nel mare fino ad incontrare l’isola di San Nicolò di fronte, e alle spalle la Basilica Eufrasiana con i suoi splendidi mosaici, iscritta dal 1997 nell’elenco del patrimonio mondiale dell’Unesco (è tra i più importanti monumenti dell’arte bizantina in Adriatico) […]
E lì c’è un ristorante tenuto da un istriano. […] Il proprietario racconta «Quando ero ragazzo la mamma faceva cucina istriana e italiana: pastasciutta, minestre, il brodeto di pesce, però con il pesce fritto, non a crudo: uno scorfano, una seppia e un cefalo. Come carne mangiavamo la gallina. E poi polenta, patate lesse condite con olio e aceto, strucolo de pomi, strudel di mele, che mia mamma faceva con la pasta tirata, all’austriaca, e non con quella lievitata che fanno in altre parti dell’Istria, secondo una ricetta credo più locale o forse dalmata. Poi, in Istria, è arrivata la Jugoslavia, e ci siamo trovati all’improvviso di fronte alla carne di asino e di cavallo: in un primo momento non esisteva nient’altro. Più tardi gli jugoslavi hanno portato in Istria, insieme ai militari che da Belgrado venivano mandati qui in castigo come se l’Istria fosse una terra di confino, la cultura della carne alla griglia che da noi non esisteva: da noi la carne o il pesce si cuocevano sulla brace coperti da una campana di ferro con i buchi per far passare l’aria. Abbiamo cominciato a mangiare l’agnello o il maialino allo spiedo: l’agnello all’istriana si fa a pezzi in padella con l’aglio e il rosmarino. E lo yogurt, di cui non sapevamo prima neanche l’esistenza. Lentamente si perdeva la memoria della cucina austriaca che però ci ha lasciato il Kompot, mele e mele cotogne cotte con lo zucchero e poi affogate nel vino rosso, così come si sta perdendo anche la memoria e la pratica della nostra cucina istriana, le minestre della Ciciaria a base di granturco dolce e di orzo. Le pite segnano un punto a favore della convivenza e della commistione tra due culture, quella ungherese e quella slava: sono torte con una base di pasta fatta con farina, lievito, burro, uova e vaniglia, sopra si stende uno strato di mele o ciliegie e noci, e si copre con un altro strato di pasta.
E intanto in Istria arrivavano gli albanesi con i loro gelati e i dolci turchi come la baklava, gli sloveni con la loro ghibaniza, strati di pasta sfoglia, semi di papavero, noci e sopra uno sciroppo. Come la musica, anche la cucina cambia…» […]
«In Istria eravamo abituati a un modo di mangiare che era scandito dalle stagioni: d’inverno avevi le verze, a Natale si faceva il pesce fritto con le verze in padella, e il baccalà mantecato con l’olio d’oliva. In primavera e in estate si cucinavano le verdure di stagione; risi e bisi, frittata di asparagi, la minestra con il finocchio selvatico, i pesci, le sardelle, i sardoni, i moli che si pescavano in quel certo momento e non in un altro… Con la Jugoslavia è arrivata la zimica: in fabbrica, dove lavoravamo, ci davano un buono per la zimica, ed erano sacchi colmi di cavoli, barbabietole sott’aceto, uno o due vasi di strutto. La logica, che non era mai stata la nostra, e che ci faceva anche ridere, era quella della provvista per l’inverno: noi, in Istria, con l’orto dietro casa e sempre qualcuno in famiglia che andava a pescare, eravamo abituati a pensare al pranzo e alla cena giorno per giorno, secondo quello che ci davano la nostra campagna e il nostro mare». […]
La “resistenza italiana” all’assimilazione prima jugoslava e poi croata o slovena: «Dopo l’occupazione jugoslava, mia mamma a casa piangeva, mio papà era irruento, e gridava, la mamma gli diceva: “Stai zitto, o vuoi andare in disgrazia?” Tutti zitti, tutti impauriti. E però a Pasqua e a Natale, dalle case degli istriani ridotti al silenzio, per loro parlava il profumo di pinze, di fritole, di baccalà che usciva dalle porte e dalle finestre. Era il nostro modo di dichiarare la nostra identità».
E i matrimoni misti, lei italiana, lui croato, a Rovigno o a Pola (il 98 per cento degli italiani d’Istria, ti spiegano, si sono sposati con uomini o donne di nazionalità e lingua slava): «Mio marito, croato, che non ha mai accettato la mia pastasciutta, ultimamente l’avevo fatta per cena e mi ha detto: “Va bene, fattela tu con il sugo e a me buttaci sopra uno yogurt con lo zucchero”. La coppia ha anche un bambino, si chiama Patrick: “E tu, Patrick, come la vuoi la pasta?”, “Come papà”; «Io italiana, mangio il pesce, lui mangia solo la carne»; «La verza noi istriani la facciamo soffocata in padella con olio e aglio, loro, i croati, la lessano con le patate e poi la ripassano in padella con la cipolla: a loro non piace come la facciamo noi, a noi non piace come la fanno loro»; «Per andare d’accordo con mio marito ho adottato la sua cucina, faccio il čuspajs, fagiolini a corallo lessati e poi ripassati in padella con la panna acida; faccio il sugo con la carne di maiale, di manzo, di agnello e insieme il pollo a pezzi, si porta tutto a metà cottura e poi si aggiungono melanzane, zucchine e peperoni a pezzi, patate, carote, e quando è quasi cotto tutto si mette un pugno di riso…». […]
«La città era al cento per cento italiana: nel 1948 se n’è andata più di metà della popolazione. A noi che siamo rimasti qui non hanno spiegato niente: dell’esodo e delle foibe abbiamo saputo dalla televisione italiana, ma qui è ancora un discorso che non posso, che non si può fare. È un segreto.
I miei genitori all’epoca erano giovanissimi e hanno deciso di restare per non lasciare mamma e papà. Io sono cresciuta in una terra “quasi libera”, o almeno così mi sembrava da bambina e ragazza: la mia generazione non si è assolutamente resa conto di vivere, invece, sotto una dittatura. Certo, sapevamo che c’era lo spionaggio per chi andava in chiesa, e in chiesa, da poco, ho celebrato i venticinque anni di matrimonio.
Noi siamo rimasti italiani: lo siamo nelle canzoni che ascoltiamo e cantiamo, nel modo di fare e di trattare le persone, nel parlare la nostra lingua. E nella cucina. Sono cresciuta con la cucina istriana secondo la quale si mangiava sempre col cucchiaio: c’era sempre un brodo o una minestra, e con un secondo di carne o di pesce c’era sempre la verdura di stagione o l’insalata, meglio se era il radicchio colto nei campi. Avevamo tutti le galline e mangiavamo molte uova: ai bambini si faceva sempre lo zabaione. Il pesce si faceva fritto o in brodeto, le sardelle in savor, quando si faceva il pesce lesso, nell’acqua di cottura si cuoceva il riso e mangiavamo il brodo di pesce con il riso.
Poi sono arrivati tanti popoli diversi: i bosniaci che sono stati ospitati dai croati perché si sono dichiarati croati, se uno si chiamava Mustafà, da un giorno all’altro lo ribattezzavano Ivan. E hanno importato i loro dolci. Come prima i serbi avevano portato lo srpski pasulj, i fagioli alla serba, che noi, in istriano, abbiamo ribattezzato “fagioli fissi”: un chilo di fagioli rossi, carne secca o salsicce, tre o quattro spicchi d’aglio, una foglia di alloro e olio d’oliva, Sì, abbiamo copiato: ognuno che è venuto qui ci ha insegnato delle cose buone e nuove…»
A Rovigno un’anziana e vivace signora che vive con la pensione di operaia della locale Manifattura Tabacchi voluta dall’Austria-Ungheria e ancora oggi funzionante, sintetizza tutto così: «Quando eravamo poveri mangiavamo quello che all’epoca era considerato povero: il baccalà, le granseole che non costavano niente e si lessavano in venti minuti, le lumache con le patate, i mussoli con le patate. E ci vergognavamo di dire che avevamo mangiato questo tipo di cose: il lusso era la gallina ruspante, un gallo che arrivava sulla tavola solo in occasione di un battesimo o di un’altra cerimonia. Le capesante, quando qualcuno dei nostri uomini le pescava, le ributtavamo a mare. Mi hanno raccontato che nell’Istria del nord, dove da sempre ci sono i tartufi, gli istriani, che non sapevano di cosa si trattasse, fino a non molti anni fa, li davano da mangiare ai maiali: adesso vengono qui a comprarli anche da Alba.
Eravamo signori e non lo sapevamo».

 
MINESTRA DI BOBICI CON FILETTI DI SGOMBRO


 
Il granturco novello in Istria viene chiamato bobici. La minestra di bobici è considerata, anche dai triestini, una vera golosità. Ma poche persone la fanno ancora in casa e chi ama questa minestra è spesso costretto ad andare in cerca di qualche tipica trattoria che ancora la propone.
Ci tengo a precisare che questa minestra di bobici è fatta a modo mio e non è assolutamente quella tradizionale, che si fa normalmente con l’aggiunta di prosciutto e pancetta e senza lo sgombro.

 
Ingredienti per quattro persone
due pannocchie di granturco novello (se non è periodo vanno bene anche quelle precotte sottovuoto)
200 g di fagioli rossi cotti
2 spicchi d’aglio
2 patate
½ litro di brodo vegetale
due sgombri freschi
olio, sale, pepe


Preparate gli sgombri. Togliete testa e coda e fateli cuocere in acqua bollente per una decina di minuti. Quindi toglieteli dall’acqua, togliete la pelle, la lisca centrale e le altre spine, divideteli in filetti, conditeli con olio, sale, pepe e fateli raffreddare.

Preparate la minestra. Tritate finemente gli spicchi d’aglio e tagliate a cubetti piccoli le patate precedentemente sbucciate. Mettete l’aglio e le patate in un tegame con un po’ d’olio e fateli rosolare leggermente, quindi coprite con il brodo caldo.

Sgranate le pannocchie e aggiungete il granturco alle patate unitamente ai fagioli e fate cuocere per una ventina di minuti, fino a che si sarà consumato quasi tutto il brodo. Schiacciate con la forchetta qualche pezzo di  patata.

Servite la minestra tiepida, meglio ancora se riposata (il giorno dopo) accompagnandola con crostini di pane, una spolverata di pepe, un giro d’olio e adagiandovi sopra i filetti di sgombro.

Con questa ricetta partecipo al contest I love Istra  di Claudia e Ambra con la collaborazione dell'Ente Turismo Istra.


7 commenti:

  1. Cara Mari innanzitutto grazie per la tua partecipazione e per questa minestra fantastica. E' vero l?Istria è ancora una terra di cui si parla poco e spesso si confonde con Slovenia e altre regioni per questo con il nostro contest abbiamo voluto cercare di diffondere un pochino questa realtà . Il tuo contributo è stato molto prezioso anche perchè con questa pagina di libro che citi ci hai decisamente aiutato a capire un pò meglio l'Istria , libro che a questo punto cercherò assolutamente . Grazie ancora e in bocca al lupo. Claudia

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    1. Grazie a te. È stato interessante anche per me partecipare. per quanto riguarda il libro é veramente molto bello.
      alla prossima

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  2. Sono d'accordo con Claudia, il contributo di chi conosce meglio l'Istria ci è davvero utile a capire e a trasmettere le caratteristiche ma anche la cultura e la cucina di questa terra così vicina ma anche così poco conosciuta. Per questo ti ringrazio di cuore!Un bacione

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  3. Penso che attraverso la cucina si possa capire molto di una terra e della sua gente.
    Grazie a voi ;)

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